Criptovalute: computer game o inizio di un nuovo sistema finanziario?

Il recente affermarsi delle criptovalute come tema di discussione, ci pone l’occasione di fare il punto della situazione su un argomento che, certamente, diventerà di grande attualità nel prossimo futuro.

Le domande a cui bisogna cercare una risposta sono molte ma possono essere circoscritte, in una prima analisi, a poche ma cruciali questioni: cosa sono veramente le criptovalute? Come si creano? Se e come cambieranno il sistema finanziario mondiale? Possono rappresentare una valida alternativa di investimento alle “asset class” tradizionali?

Per comprendere al meglio l’evoluzione delle criptovalute, come sempre, è necessario fare qualche passo indietro: in particolare alla prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso, momento in cui si afferma il movimento cyberpunk.

Sulle prime una corrente letteraria, di orientamento tipicamente fantascientifico, in cui, però, sono presenti alcuni elementi di ricerca del cambiamento sociale: un mix tra tecnologia informatica e spinte di tipo libertario. La cultura cyberpunk, in breve, spazia dalla letteratura ai fumetti, alla musica, ai film. Il fumetto italiano “Nathan Never” del 1991 ha chiare influenze cyberpunk, così come i film della serie “Matrix” ed i due “Blade Runner” (1982 e 2017).

Tra gli interessi dei cyberpunkers c’è anche quello di garantire il massimo anonimato alle transazioni di tipo finanziario, attraverso tecniche di tipo criptografico. Su questo tema, nel 1981, David Chaum, informatico e crittografo americano, pubblica un saggio dal titolo “Untraceable electronic mail, return addresses, and digital pseudonyms” che rappresenta la fondazione teorica del lavoro sull’ anonimato in rete. Nel 1989, lo stesso Chaum fonda una società chiamata Digicash. Gli utenti di Digicash, potevano ritirare soldi dalla loro banca ed inviarli ad una terza parte in forma assolutamente anonima, grazie ad un algoritmo di criptografia che conteneva una chiave pubblica (visibile e conosciuta a tutti) ed una chiave privata (nota solamente al titolare del portafoglio). Digicash ha una vita assai breve: fallisce nel 1998, secondo il suo creatore, a causa del mancato sviluppo del commercio elettronico sulla rete web che, oggettivamente, ai tempi non era ancora decollato.

È necessario, a questo punto, un salto di dieci anni.

Nel novembre 2008, un crittografo di nome Satoshi Nakamoto pubblica un saggio dal titolo “Bitcoin: a peer to peer electronic cash system” nel quale viene descritta l’architettura della moneta elettronica denominata bitcoin e, successivamente (gennaio 2009), rilascia il protocollo informatico ed il primo applicativo client del bitcoin su una mailing list pubblica.

Satoshi Nakamoto è uno pseudonimo; un indirizzo di posta elettronica non collegabile con una persona fisica. Per alimentare ulteriormente il “mistero” sulla sua identità, nel 2010, dopo aver contribuito al lancio del progetto, Nakamoto cessa di interagire con gli utenti di bitcoin, per poi sparire del tutto nel 2011. Ad oggi, non si è riusciti ad identificare Nakamoto o il gruppo di persone che si cela dietro questo pseudonimo.

L’architettura del bitcoin, così come concepita da Nakamoto, si basa su una tecnologia detta “blockchain” (in italiano, catena di blocchi).

La blockchain è il cuore del progetto bitcoin (così come delle altre criptovalute e di molte altre applicazioni che questa tecnologia troverà nel futuro), quindi il suo funzionamento va compreso con ragionevole completezza. Con le dovute semplificazioni (si parla, comunque, di algoritmi criptografici molto sofisticati), possiamo dire che la blockchain è un insieme di transazioni valide accoppiate ad un marcatore temporale detto “timestamp”. Ogni blocco contiene una forma di indicazione del blocco precedente, saldando così indissolubilmente la catena temporale.

In questa maniera si riesce a creare una catena temporale di blocchi, conosciuti a tutti i partecipanti alla blockchain (la catena è pubblica e visibile in rete) ed univocamente determinati.

In un ambiente così costruito, è evidente che le transazioni monetarie (lo scambio di bitcoins) ha un livello di sicurezza molto alto. La doppia spesa (double spending) di un bitcoin è sostanzialmente impossibile in quanto, una volta che una moneta è transitata da un partecipante all’ altro, questo movimento, proprio perché noto a tutti, non è reversibile.

Su questa base, è possibile sfatare uno dei miti che circondano i bitcoin (e valido per quasi tutte le criptovalute): non è vero che garantiscono l’anonimato; certamente, ad ogni transazione registrata nella blockchain non è associato il nome ed il cognome di chi l’ha generata ma solamente la chiave pubblica del suo portafoglio, rimanendo quella privata confidenziale. Esattamente come avveniva per Digicash, con la differenza che, come già ricordato, chiunque può conoscere ciascuna transazione effettuata sulla blockchain.

Visto che la garanzia di anonimato non è lo scopo del bitcoin e di molte altre criptovalute, perché sono state create ed a che cosa servono?

Vediamo di chiarirlo con un banale esempio. Se oggi decidessimo di comperare un libro in rete, la nostra transazione commerciale sarebbe forzatamente mediata da un intermediario (banca, carta di credito, servizio di pagamento). Questo intermediario deve, preventivamente, aver accertato la solvibilità di chi compra per poter chiudere la transazione finanziaria che, a sua volta, completa quella commerciale. Immaginiamo ora di comperare il medesimo libro in una libreria e di pagarlo in contanti. In questo caso, tra acquirente e venditore non esiste nessuna forma di intermediazione. La dazione del contante chiude simultaneamente la transazione finanziaria e quella commerciale ad essa associata. Inoltre, lo scambio del contante, una volta avvenuto, rende la transazione finanziaria univocamente determinata e non reversibile (a meno che non avvenga uno scambio di contanti in senso contrario tra acquirente e venditore, in caso, per esempio, di un reso).

Le criptovalute rendono possibile una transazione in rete tagliando completamente fuori l’intermediazione; la transazione, inoltre, grazie alla tecnologia della blockchain rende sostanzialmente impossibile la doppia spesa: proprio come accade con il contante. Per questo, quando si parla di criptovalute, spesso si usa la dizione “contante digitale”.

Oltre alla intermediazione finanziaria, c’è un altro grande assente nell’architettura delle criptovalute: la banca centrale. In un sistema “classico”, l’offerta di moneta è determinata dalla banca centrale, con il sistema bancario che funge da moltiplicatore; nel nostro caso, da dove nascono le criptovalute? Chi le immette nel sistema?

E ‘evidente che l’offerta di criptovalute non possa essere illimitata. Nessun bene con offerta illimitata potrebbe avere un valore, quindi un prezzo. Per questo, la creazione del bitcoin e di tutte le criptovalute che si sono succedute è basato sulla cosiddetta “proof of work” (prova di lavoro). Sostanzialmente, vengono proposte nella rete una serie di equazioni a difficoltà crescente; chi risolve per primo l’equazione proposta, genera una nuova unità di criptovaluta. Questa attività, detta minamento (in inglese mining) ha forti analogie con quanto accadeva per l’oro fisico nei secoli passati: anche in quel caso una serie di soggetti (i minatori) ponevano in essere delle attività (lo scavo delle miniere) ed avevano come compenso l’oro fisico che poteva facilmente essere convertito in moneta. I minatori moderni sono delle vere e proprie fabbriche (dette mining farms) dove grandi quantità di computer molto potenti sono dedicati solamente allo svincolo di criptovalute. Parlando di grandi quantità di computer non si usa un eufemismo: alcune mining farms sono degli hangar giganteschi, solitamente posizionati dove è possibile minimizzare i costi dell’energia elettrica. Il mining, infatti, è un’attività fortemente energivora.

 Oltre alla valenza di facilitare gli scambi di merci e servizi per via elettronica, le criptovalute possono rappresentare una forma di investimento alternativo ai canali tradizionali? Oggettivamente si, con qualche precauzione.

Le criptovalute (ce ne sono circa mille in circolazione) possono essere segmentate in tre diversi gruppi, secondo il criterio della capitalizzazione (numero di monete in circolazione, moltiplicato per il loro valore di scambio): alta, media e bassa. Nel primo gruppo, si contano una decina di valute, nel secondo circa una trentina e nel terzo ci sono tutte le altre.

Le criptovalute del primo gruppo hanno sempre più la tendenza a comportarsi come un asset tradizionale, per il quale è possibile identificare dei trend di breve periodo ma anche delle soglie di supporto e resistenza di più lungo periodo. Quelle del terzo gruppo (ovviamente, per numero, la maggioranza) si prestano a strategie di tipo “disseminativo” (investire una piccola quantità di valore in un grande numero di monete), assumendo che alcune di esse possano affermarsi prepotentemente, mettendo a segno rialzi di valore davvero rilevanti, a fronte del rischio di una altrettanto grande mortalità infantile. Le appartenenti al secondo gruppo, sono una via di mezzo tra i due estremi appena descritti.

In ogni caso, anche la principessa delle criptovalute del primo gruppo, ovviamente il bitcoin, ha un trend ad alta volatilità ma tendenzialmente crescente in linea con un’intonazione generale del settore.

Questa tendenza alla crescita durerà? Secondo Paolo Savona, in un intervento dello scorso settembre su Italia Oggi, i meccanismi di formazione del prezzo del bitcoin (e per analogia delle altre criptovalute) sono difficilmente identificabili in quanto “non si conoscono gli scopi dei possessori di questa moneta (per commerciare, per speculare, per investire, per riciclare, per sottrarsi alle autorità). Finchè questa condizione prevale, il valore del bitcoin crescerà dando la sensazione di un ottimo investimento; quando cesserà, i possessori registreranno perdite. Si può parlare dell’esistenza di una bolla speculativa circoscritta tuttavia a una percentuale limitata di investitori e di investimenti e, almeno per ora, non pericolosa”. Sempre secondo Savona “criptovalute e blockchain saranno il mercato del futuro, già presente, ed è perciò indispensabile che i problemi che essi sollevano vengano chiariti ed affrontati subito”.

Insomma, un’onda che si può cavalcare anche se con la dovuta cautela.

Michele Russo

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